L’homo technologicus, che rappresenta l’apice dello sviluppo della scienza e della tecnologia, si è trovato improvvisamente e concretamente a fare i conti con i limiti dell’idea che tutto si possa fare e tutto si possa avere senza quasi alcuno sforzo, grazie alle tecnologie sempre più all’avanguardia. L’onnipotenza a cui ci siamo, senza accorgercene, abituati si sta sgretolando dietro il flusso di morti che la scienza non riesce a interrompere a causa di un microrganismo talmente elementare nella sua struttura che nessuno di noi avrebbe mai pensato di potervi soccombere così, visti i sofisticati mezzi di cui la nostra scienza e la nostra tecnologia dispongono. L’esperienza che stiamo vivendo ha rimarcato ai nostri occhi le contraddizioni di un sistema sociale e culturale decisamente ambivalente. Un sistema a cui si può chiedere tutto, dal prolungamento della giovinezza all’allungamento della vita, ma che allo stesso tempo manca di fare attenzione alla tutela della vita stessa, per chi di salvare vite, ad esempio, ora si sta occupando. Mancano le mascherine! Mancano le attrezzature per i reparti di terapia intensiva. Un mondo che corre verso l’idea di immortalità ma non rispetta la vita nella sua essenza… Considerazioni queste che hanno altre implicazioni e vanno oltre questo semplice articolo. Le certezze a cui eravamo legati si sono inesorabilmente incrinate sotto l’onda dei contagi incontenibili, dei ricoveri necessari, delle morti innumerevoli. I vincoli che l’amministrazione del Paese ci sta imponendo ci porta a fare i conti con il limite, a cui non eravamo abituati. Non ci si può fermare con gli amici al bar o rilassarsi con un aperitivo, non si può uscire a passeggiare, non ci si può stringere la mano, non si può fare un weekend a Parigi.. Per fare la spesa bisogna fare code interminabili. Restrizioni che ricordano uno stato di guerra. Tutto ciò ci rende insofferenti e spaventati al tempo stesso. Per chi, come noi, è abituato che tutto si può fare e tutto si può avere è davvero una crisi! Anche l’esperienza della morte cambia, per chi muore e per chi si lacera nel dolore di non poter accompagnare alla morte.. Non eravamo preparati ad affrontare questo sovvertimento. Ci ha preso alla sprovvista, disarmati. Ed proprio in questo sentirsi completamente indifesi, esposti, che si collocano i presupposti del trauma. Il trauma dell’homo technologicus. Ci costringe a rivedere le priorità e riconsiderare i nostri valori. Due cose hanno colpito la mia attenzione, il ruolo dei social network nel fare da cuscinetto allo spaesamento e alla paura e il modo in cui si è costretti a morire.
Dall’ambivalenza della nostra era digitale sta emergendo il suo aspetto positivo. Aspetto positivo molto spesso adombrato dal cattivo uso che siamo abituati a fare degli strumenti telematici e che risponde all’imperativo di mostrarci a tutti i costi. Ora, la solitudine a cui siamo costretti ci annienterebbe se non fosse per internet o whatsapp che ci permettono di rimanere in contatto anche se costretti nelle nostre case. La tecnologia impedisce alla solitudine di diventare isolamento. Possiamo perfino vedere gli amici, i fratelli, i nipoti o i genitori, rimasti confinati in altre città, mentre parliamo con loro. Il supporto della tecnologia ci permette di lavorare a distanza e, a noi psicologi, consente di mantenere una continuità nel lavoro con i nostri clienti, nonché di creare reti di sostegno che oltrepassano i confini territoriali e arrivano a chi, in questo momento ha bisogno di aiuto. Gli esseri umani sono comprensibilmente spaventati dalla minaccia alla vita e cercano di difendersi da essa o negando l’evidenza della situazione (si continua a uscire e a stare insieme incuranti dei divieti) o svaligiando i negozi di alimentari, il cibo è la prima garanzia di sopravvivenza. Quando percepiamo una minaccia alla sopravvivenza rispondiamo con gli istinti animali per la salvaguardia della vita e la difesa dai pericoli che fanno parte del nostro patrimonio genetico. Esiste però un’altra risposta per affrontare la paura della morte che non è semplicemente una risposta reattiva bensì un tentativo di gestione più complesso, quello che ci consente di esorcizzare questa paura aggirandola. E’ il caso di chi dal chiuso della propria abitazione canta dai balconi e posta sui social creando così un’opportunità di condivisione per scongiurare il timore dell’isolamento e trovare la forza gli uni negli altri di credere che la condivisione e la collaborazione ci aiuteranno a superare l’evento traumatico che stiamo vivendo con ferite meno profonde. La forza e la speranza legate a quest’atto di condivisione e unione sono condensate nello slogan: Andrà tutto bene. Questo slogan è l’immagine intorno a cui stiamo costruendo l’idea di noi stessi come persone che hanno le risorse necessarie per superare questo momento tanto difficile e destabilizzante. Divulgare il nostro slogan sui social e in ogni immagine televisiva, serve a rafforzare in noi l’idea positiva di potercela fare.
Al polo opposto di questo tentativo di proteggere il contatto con i propri simili e i propri cari si consuma la tragedia di tutti coloro che hanno visto sparire un genitore, un nonno, un fratello nella spirale di un ricovero da cui non hanno più fatto ritorno senza nessuna possibilità di contatto alcuno. Si, perché il covid19 è riuscito a riportare la nostra epoca tecnologica e all’avanguardia alla peste del 600’, quando l’unico modo per evitare il dilagare della malattia era quello di portare via le salme senza poter dire addio ai propri cari officiando i riti funebri e di bruciarle. La portata di quanto sta accadendo sottrae un po’ della fede che avevamo riposto nel potere della scienza e della tecnologia. La profondità di una ferita tale è difficilmente rimarginabile. Quale senso dare a qualcosa che è insensato? Che senso dare nel 2020 ai carri militari che portano via i morti dagli ospedali, come se fossero solo numeri, verso altre città per poterli cremare? Senza che nessuno li abbia accompagnati nel loro commiato e abbia potuto piangerli nel momento della dipartita stringendosi in abbracci di conforto..? Sembrano scene apocalittiche.. Le risposte per affrontare traumi del genere possono arrivare solo dall’interno di noi stessi, portando alla luce le risorse che ci permettono di trovare in quell’insensatezza qualcosa che ci consenta di percepire un sentimento di comunione e vicinanza con chi ci ha lasciato, soffermandoci sul bello e sul buono che ci hanno dato. Si, perché prima di essere andati via in quel modo sono stati con noi. E’ difficile poter pensare che questo sia possibile, il dolore e il senso di ingiustizia o il senso di colpa non passeranno, ma diventeranno più leggeri se riusciamo a pensare a chi ci ha lasciato anche a come è stato insieme a noi e non solo a come ha dovuto andarsene. Non vuole essere un vano tentativo di consolazione ma solo un tentativo per indicare una possibile via d’uscita. Tutto questo è davvero difficile… Pensando a quanto sta accadendo mi viene in mente un bellissimo film di David Frankel, Collateral beauty. Il solo modo per uscire dalle esperienze più terribili è cogliere quanto di pregevole riescano a tirar fuori da noi e quanto possano essere umanamente arricchenti per noi stessi e per tutti quelli a cui siamo vicini.
Dott.ssa Teresa Conti
Psicologa Psicoterapeuta a Bologna (Zona Saffi)
Mi chiamo Teresa Conti, vivo a Bologna, sono iscritta all’ordine degli psicologi dell’Emilia Romagna con il n. 3421 e il mio orientamento teorico è il modello costruttivista intersoggettivo, in cui mi sono formata presso la scuola di psicoterapia Cesipc di Firenze.
P.I. 03714101205